PROTESTA

Ogni luogo ed ogni momento della nostra esistenza sono valorizzati in gran parte da chi li vive con pienezza poiché i veri artefici delle più grandi gesta ed emozioni siamo e saremo sempre noi, noi uomini. Il Liceo Classico è questo, un insieme di persone che amano osservare ed osservarsi, che imparano a vivere nel silenzio incessante e comunicativo della verità, spesso travolto dalla frenesia della vita. È un luogo nel quale si impara a dare un peso alle parole, dove si apprende l’abilità oratoria, a mettere in discussione tutto e ad analizzare ogni singolo momento solo dopo essere stati in grado di viverlo completamente. Perché, allora, studiare i classici? Per ritrovare le proprie origini ed imparare a costruire il proprio futuro, per comprendere quanto, per capire il mondo, sia necessario conoscersi a fondo, come enunciato dall’oracolo di Delfi, “"ΓΝΩΘΙ ΣΕΑΥΤΟΝ", “conosci te stesso”. L’estrema attualità dei classici è spesso disarmante e ci pone dinanzi alla triste verità dettata dal fatto che spesso siamo noi ad essere indietro e a non percepire la potenza e la concretezza degli insegnamenti da essi trasmessi; nel mondo greco molte cose erano state già comprese, ma poi occultate nel corso dei secoli da noi uomini, che spesso preferiamo rivelare la nostra natura codarda piuttosto che quella curiosa e desiderosa di conoscenza. La cultura conferisce libertà, uguaglianza e diversità, permettendoci di guardare il mondo con gli occhi di chi sa tanto, ma allo stesso tempo sa di sapere poco. Ci insegna ad arrabbiarci, a lottare affinché questo mondo basato sui pregiudizi e sul regresso possa migliorare attraverso la forza comunicativa ed evocativa della cultura classica. 

La protesta, degna figlia di tale cultura, serpeggia all’interno di ognuno di noi in tutti i momenti in cui sentiamo d’aver subito un’ingiustizia o una cattiveria. Armarsi di rabbia nei confronti di ciò che non funziona è meraviglioso e non è da tutti perché è difficile combattere contro un mondo spesso statico, soprattutto quando, a differenza degli altri, si riesce a sentire sulla propria pelle, in qualche modo, ogni ingiustizia subita in qualsiasi parte del mondo. La protesta è il tentativo di radere tutto al suolo e di ricominciare da capo, con la fiamma e l’ardore di chi sa cosa significa trovarsi dalla parte dei deboli e sentire le continue oppressioni di una società fatta di stereotipi. Da non confondere con la protesta è, però, l’estremismo, seguito dalla follia di chi ritiene che l’unica soluzione alle ingiustizie sia la violenza.  Le uniche arme potenti e invincibili sono le parole, capaci di grandi trasformazioni e di cambiamenti inequivocabili. Quelle stesse parole che fanno tremare, che terrorizzano, che confondono, che rivelano. Quelle di cui ci prendiamo cura, come se fossero persone, come se avessero una propria anima. Ogni cosa ha una vita: la differenza la fa chi è in grado di risvegliarla.

Proponiamo, a questo proposito, due monologhi meravigliosi, riguardanti temi che hanno segnato il tempo, lasciando ferite ancora aperte e per molti insanabili. Si tratta della lotta alla mafia, per la quale abbiamo deciso di presentare il testo finale del film “Cento passi”, di Marco Tullio Giordana, e della violenza sulle donne, il cui riferimento è il monologo della giornalista Rula Jebreal, fatto sul palco di Sanremo all’inizio di quest’ultimo e difficile anno.

L’invito, che, in qualche modo, recapitiamo ad ognuno di voi, è quello di non girarvi dall’altra parte, di non lasciar correre, di non far sì che il silenzio e l’omertà vincano sul buon senso.

Evitare i problemi non li fa scomparire…

Giulia Falzarano


 

LETTERA APERTA   E SEMISERIA  AL GRECO, A CHI AMA IL GRECO E ALLA COMUNITA’ SCIENTIFICA

Oltre le varianti c’è di più…

I Greci? Gente “seria”!

   

Caro Greco,

   non avrei mai immaginato di arrivare a questo punto: per la prima volta sono qui a difenderti, quando sei sempre stato tu a difendermi dalle intemperie della vita. 

   Sei l'unica lingua che non morirà mai, anche se tanto temuta dagli studenti, forse perché dietro di te c'è una storia che è diversa da quella delle lingue di oggi, una storia che lascia intravedere un substrato di magia e di valori tramandati, forse perché quelli come me sono portati a ricordare tutto ciò che appartiene al passato o forse perché anche il greco è, in fondo, un'occasione di evasione da questa realtà per entrare in una dimensione "altra", certamente più pura e avvincente, ancora priva di quella superficialità che contraddistingue la contemporaneità.

   A causa di questa terribile pandemia, il mondo è diventato sempre più grigio, sempre più mascherato, ma tu ci hai quotidianamente dato la speranza e la giusta dose di bellezza per continuare a desiderare e sperare in un futuro migliore.

   Quando mi apprestai a varcare la soglia del liceo classico “A. Lombardi” di Airola per la prima volta in questi cinque lunghi anni - che, ne ero sicura, avrebbero mutato profondamente le rotte future del mio viaggio, chiamato da tutti “vita” - mi ritrovai, mossa da un’enorme curiosità, a sfogliare le pagine del mio nuovo libro di greco, dalla copertina blu e con su una scritta per me incomprensibile. Credo sia inutile dire che, inizialmente, ne rimasi spaventata: tutte quelle lettere dalle forme particolari mi sembravano troppo grandi e quasi non mi sentivo all’altezza di“maneggiarle”. Con il passare dei giorni, però, pian piano mi sono resa conto del fatto che cominciavo, imparando a conoscerla, ad innamorarmi di questa lingua, proprio come accade tra persone: all’inizio non è mai semplice e, d’altronde, tutto ciò che ci spaventa, che ci appare difficile e impossibile da compiere ha semplicemente bisogno di tempo per rivelarsi nella sua completezza e diventare così, per noi, qualcosa di profondamente magico, in grado di stravolgere le nostre vite.

   E così, adesso, dopo poco più di un anno, quelle stesse lettere che tanto mi spaventavano - e a volte lo fanno ancora, devo ammetterlo! - rappresentano per me un mezzo attraverso cui, traducendo un testo, ho la possibilità di riscoprire e di riportare alla luce, parola dopo parola, frammenti di un mondo esistito secoli e secoli fa, tuttavia inconsciamente presente in noi. Quindi, scopro le gesta, il pensiero, la personalità di figure storiche così come dei protagonisti di poemi, leggende e, perché no, anche di favole: condottieri, sovrani, filosofi, matematici, dei, ninfe, madri, figli e persone comuni che se ne stanno rintanate nella quiete dei loro villaggi e focolari.

   Ciò che più mi affascina della lingua greca è il fatto che non smetta mai di sorprenderci, di stupirci, di sottoporci delle domande e di consegnarci delle risposte; posso assicurare, dunque, che è davvero magico “perdersi” per poi “ritrovarsi” in una versione di greco e lo è ancor di più, se, per congiungere tutti i pezzi del “puzzle” - ogni volta diverso - che siamo chiamati a comporre, si è costretti a fare un po' di fatica perché, solo facendo proprie quelle parole, che talvolta ci appaiono tanto lontane, riusciremo a comprendere la preziosa bellezza contenuta in esse.

   E’ per questo che mi ha lasciato interdetta, negli ultimi mesi, sentir pronunciare ovunque i nomi delle lettere greche associate a termini come “variante” e “Covid”. Ricordo, infatti, che, quando ho sentito parlare per la prima volta di variante “delta” o “omicron”, ne sono rimasta alquanto sconcertata. Questa mia reazione iniziale credo possa sembrare, agli occhi dei più, esagerata e forse anche fuori luogo, ma posso assicurare che non è assolutamente così e adesso spiegherò anche il perché. Credo, tuttavia, che mi ci voglia un po’ di tempo; a questo punto, direi, è il caso di cominciare dall’inizio!

   Sappiamo tutti come questi tempi di pandemia, che siamo costretti a vivere, stiano influenzando le nostre vite in ogni loro aspetto e forse ne stiano anche modificando il corso. Ogni giorno, dunque, tutti noi siamo chiamati a combattere contro un orribile nemico invisibile, subdolo ed astuto, che, come ha dimostrato, riesce ad anticipare le nostre mosse, mutando la sua natura, “variando” appunto. Vengono, infatti, scoperte - via via - nuove forme del “mostro”, che prendono il nome del paese in cui sono state rilevate per la prima volta.

   Nel giugno 2021, poi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) annuncia di affiancare al nome scientifico delle varianti anche un altro, indicato con alcune lettere dell’alfabeto greco. Perché si prende questa decisione? Per evitare che si discrimino i paesi in cui le varianti sono state scoperte inizialmente. Ad oggi, sono già state utilizzate dieci delle ventiquattro lettere greche.

   Adesso che sembra tutto più chiaro, vorrei pormi una domanda: come mai non si può parlare di “variante” inglese o indiana o sudafricana perché i cittadini di questi paesi potrebbero risentirne e, al contrario, è possibile utilizzare le lettere dell’alfabeto greco per classificarle? La lingua greca, infatti, è la reale testimonianza della civiltà e della cultura di un popolo esistito secoli fa, ma pur sempre esistito; esso ha trasmesso al mondo occidentale valori e principi a cui ancora oggi ci s’ispira. Il fatto che non sia più una lingua d’uso e che venga, quindi, considerata “morta” - forse sarò di parte ma, al contrario, credo sia più viva che mai per il suo saper essere sempre così attuale - non dà diritto a pensare che se ne possa far ciò che si vuole. I Greci, infatti, usavano quella lingua per i loro viaggi, per comunicare, per discutere, per insegnare, per scrivere di magnifiche imprese e semplicemente per dirsi “ti amo” o  “ti voglio bene”.

   Dunque, come i cittadini italiani o francesi, americani o australiani, giapponesi o sudafricani e tutti coloro che abitano in ogni angolo del mondo non sarebbero contenti, se venisse utilizzato l’alfabeto della loro lingua per descrivere queste famose “varianti”, causa di tanta sofferenza per tutti, credo sarebbe lo stesso anche per Tessali, Achei, Focesi, Euboici e tutti gli altri popoli di lingua e cultura greche.

   Mi piace interrogarmi su cosa potrebbero pensarne, ad esempio, gli Ateniesi o filosofi come Platone, Socrate, Eraclito, Aristotele o storici come Erodoto e Tucidide: sicuramente per loro non sarebbe una bella scoperta e - come si è soliti dire - si rivolterebbero nella tomba! Provo ad immaginare uno di loro che, se sapesse in che modo è stato utilizzato l’alfabeto della sua lingua e ne avesse la possibilità, correrebbe a lamentarsi della faccenda direttamente con l’OMS, facendo valere le sue ragioni (ovviamente esprimendosi nella sua lingua).

   Ciò che, quindi, chiedo - per amore del greco - è che la comunità scientifica riconsideri le sue scelte e trovi un’altra soluzione per definire le mutazioni del nostro “carissimo” Covid. Non posso accettare che io debba essere, in un certo qual modo, “costretta ad odiare” queste lettere alle quali sono tanto legata - proprio come si può esserlo ad una persona - perché associate a qualcosa di terribile, simile ad un incubo da cui l’intero mondo spera di risvegliarsi presto.

   Inoltre, mi auguro che i ricercatori non debbano più dare nomi a nuove varianti e spero che il mondo intero possa semplicemente concentrarsi su altro: ad esempio, la bellezza della vita, la quale, pur nelle difficoltà e nelle prove da affrontare (proprio come è successo in questi ultimi due anni a causa della pandemia), merita di essere preservata con cura perché, come abbiamo avuto modo di comprendere, può sfuggirci dalle mani, senza neanche accorgercene.

   Vorrei concludere con un pensiero rivolto “a quelle lettere dalle strane forme” di cui parlavo all’inizio, le quali sono riuscite in poco tempo a farsi conoscere per ciò che sono davvero e a farsi strada nel mio cuore, dove si sono ritagliate un angolino in cui rimarranno per sempre. Quando mi cimento nella lettura o nella traduzione di un testo in greco, so già che sto per intraprendere un’avventura che potrà riservarmi innumerevoli sorprese, catapultandomi in un’altra dimensione totalmente differente eppure attualissima, in cui riesco sempre a ritrovarmi. Ogni qual volta, poi, termino il mio viaggio e chiudo il mio libro dalla copertina blu, mi rendo conto del fatto che, in realtà, qualcosa in me è cambiato rispetto al momento in cui l’ho aperto. E così, parola dopo parola, testo dopo testo, ho la possibilità di riflettere, immedesimarmi, arricchirmi e soprattutto crescere. Sono certa del fatto che domani, qualsiasi cosa vorrà riservarmi il futuro, sarò sempre grata a quelle lettere greche, che tanto mi spaventavano.  

   Virginia Woolf diceva che “è al greco che torniamo, quando siamo stanchi della vaghezza e della confusione della nostra epoca”: se oggi siamo ancora più confusi, persi in un mondo che fatichiamo a comprendere, ritorniamo sempre al greco! Ritorniamoci, leggendo i poemi di nostro padre Omero; ritorniamoci, leggendo i frammenti di Saffo. Ritorniamoci, sognando: "Back to the Greeks!" (Oddio, no, l’inglese no!  E ora chi glielo dice al mio prof di greco? Meglio evitare…)

   Ah, dimenticavo una cosa, cioè che, quando, prima o poi, la pandemia sarà finita, un desiderio-richiesta l’avrei: mi piacerebbe, infatti, che su ogni quotidiano, ad ogni notiziario di ogni paese del mondo, praticamente dappertutto ci fosse un messaggio di speranza dettato in greco antico, proprio la lingua che si studia a scuola. Come, infatti, sono state adoperate le lettere greche per dare il nome alle “celebri varianti” allo scopo di facilitare la comunicazione, allo stesso modo sarebbe interessante servirsene per annunciare all’umanità un nuovo inizio, ovvero la sconfitta del terribile “mostro”, che per un bel po’ si era impossessato delle nostre vite. E perché no, dunque:

“ἡ τῆς νέας ὑπαρχῆϛ ἐλπίς ἔρχεται· ἡ ἀναβίωσις”  

(“giunge la speranza di un nuovo inizio: il ritorno alla vita”)

 

Raffaella Teti, in collaborazione con Chiara Marotta

IIA Liceo Classico “A. Lombardi” di Airola