Elzeviri

 
 Eugenio Montale
  Non pensavo che, oltre a Leopardi, qualcun altro potesse avere un così grande successo, dopo aver messo la sofferenza al centro della propria vita e della propria arte. Eppure, sbirciando nella storia e nelle pagine dei libri, si scoprono dolori quasi sopiti, ma ben più violenti di quello leopardiano; il pessimismo di Eugenio Montale, per esempio, è molto più enigmatico, ma, paradossalmente, anche più comprensibile del problematicismo del gobbo di Recanati.
 Tutti conosciamo i motivi per cui Leopardi è insoddisfatto della vita e della società. Ma Montale? Perché è così tanto pessimista da vedere il dolore anche nel suggestivo paesaggio della sua Liguria?
 La sua prima raccolta, Ossi di seppia, viene pubblicata nel 1925, quando è in piena affermazione il regime fascista. Negli ambienti letterari impazza l’ideale del superuomo di D’Annunzio, ma Montale va completamente contro corrente. Si fa portavoce del bisogno esistenziale dell’umanità, di quel varco che nessuno riesce a trovare, nonostante tutti lo cerchino. Qualche anno dopo, scoppierà la seconda guerra mondiale, dopodiché dilagherà in tutti i campi il vero pessimismo, quello di un mondo sconvolto dall’atrocità del conflitto, ma si tratterà di una visione delle cose molto diversa da quella montaliana. E, allora, come possiamo spiegare quella che tutti definiscono “la poetica della negatività”? Forse, egli ha voluto semplicemente tradurre in versi un sentimento molto comune, semplice ed originario, quella sensazione che, certi giorni, non dà tregua a nessuno perché ci mette un velo sugli occhi o, forse, ce lo toglie. È come una ferita, che crediamo rimarginata e a cui non pensiamo più, che torna a pungere più e più volte, come un dolore sottile che infastidisce, ma fa riflettere. Forse, non siamo del tutto guariti. Forse, non guariremo mai.
   Montale ha avuto una vita come quella di tanti altri, con le difficoltà, i problemi, le soddisfazioni e, soprattutto, con quel male di vivere che c’è sempre, anche se riaffiora solo di tanto in tanto. Il poeta descrive proprio i momenti della vita in cui il dolore straripa e poi si insinua di nuovo nelle pieghe dell’esistenza, capovolgendo il mondo di ognuno di noi. In questi frangenti, anche la natura sembra condividere la nostra sofferenza: la foglia secca che cade non ci sembra più una scena pittoresca, ma la fine di una vita; il torrente non scorre soltanto, ma scroscia quasi a fatica; una bella giornata di sole, magari anche nel meriggio, quando un aureo silenzio scandisce il tempo, diventa troppo afosa perché sembra quasi che una cappa di dolore voglia soffocarci. Nessuno ha mai avuto un giorno così? Certo, c’è chi lo ignora, chi si sente più forte, chi lo vive in solitudine, chi non si abbatte e chi, come Montale, riesce a trasformarlo in una poesia di cui tutti siamo protagonisti. Il “tu” montaliano è, quindi, l’umanità intera, a cui egli si sente molto vicino perché ne fa parte e non pretende di mettersi al di sopra. Si comporta come tutti noi: anche lui cerca di essere contento, se possibile, della felicità altrui, se non può godere della propria. 
   Prima che un poeta, Montale è un uomo. Questo è quello che arriva sin da subito, leggendo le sue poesie. La sua poetica è un consiglio, non un’imposizione. Egli racconta semplicemente i suoi sforzi di trovare una soluzione al male di vivere, ma non vuole essere una guida. Una possibile via d’uscita potrebbe essere l’Indifferenza, che per Montale viene dal divino, ma non a tutti sembra la migliore. Non dare ascolto alla voce della coscienza, infatti, fingendo che questo “bruciore” dell’anima possa anestetizzarsi senza troppa fatica, non è la soluzione. Dobbiamo capire che il travaglio della vita è più potente di noi ed ha in mano la nostra esistenza. Se lo sfidiamo, ci punisce e si rialza più forte di prima. E poi, Manzoni ci insegna che il dolore è un privilegio perché ci innalza, ci fortifica. È difficile da capire, ma pensarci può servire, anche se non basta.
   Rimane ancora la soluzione più comune che il poeta ci propone: affidarsi a qualcun altro. Può funzionare, se la persona è quella giusta. Montale si rifugia nelle donne, in quelle figure salvifiche che sono le sue occasioni per scrutare il vero varco, magari per intravederlo, anche senza viverlo. Solo assaporarlo. Ma la nostra occasione può essere anche un ricordo. Non sempre c’è una persona pronta a starci accanto, quando ne abbiamo bisogno, senza pretendere nulla in cambio. Sarebbe anche troppo semplice. E allora la vita, se non può donarci la felicità completa, almeno ce ne dona una parte: la memoria di un giorno o di un momento particolare, che, magari, non abbiamo saputo vivere fino in fondo, ma che possiamo ripercorrere con il cuore. Non è vero che il ricordo di un momento felice non vuol dire felicità. Niente dura in eterno, lo si sente dire da secoli. Quindi, se qualcosa finisce, non dobbiamo strapparci i capelli, ma continuare a custodire quel ricordo, senza lasciarlo andare, e non sciuparlo con la disperazione.
Forse, dunque, la soluzione non è pensare a quello che non abbiamo e che rimpiangiamo, a ciò che non siamo e che vorremmo essere, bensì alle cose che abbiamo vissuto e a quelle che la vita ci dona giorno per giorno, senza pretendere troppo. Bisogna che riconosciamo la nostra piccolezza. Dobbiamo, però, imparare a vivere completamente il dolore, senza cercare di annullarlo. Montale lo trasforma in versi per soffrire meglio, ma, in realtà, non desidera cancellare il male di vivere dalla sua esistenza perché, in fondo, sa bene che, senza la sofferenza, non esisterebbero quegli attimi fuggenti e, tuttavia, eterni di felicità.
 

 

Umberto Saba: il poeta della quotidianità

 Umberto Saba, senza dubbio uno dei più grandi poeti del XX secolo, nasce il 9 Marzo 1883 a Trieste, da madre ebrea e padre cristiano. La mancanza della figura paterna costringe la madre ad affidare il bambino alla contadina slovena Peppa Sabbaz; il “piccolo Berto” viene subito conquistato dal carattere estroverso, allegro ed espansivo della nutrice, che lo porta ad allontanarsi dalla figura della madre, causando in lui il disagio di un’ambivalenza affettiva che lo tormenterà per tutta la vita. Il cognome d’arte, Saba, sembra sia legato proprio al forte ricordo della nutrice.

Nel periodo di produzione letteraria dell’autore, a Trieste, unico porto dell’Impero austro-ungarico, circolano tre lingue: il tedesco, il dialetto (molto usato) e l’italiano, che fa parte di una tradizione letteraria alta, alla quale Saba aderisce con una poetica semplice e originale, che si allontana dalle correnti dominanti del tempo.
Saba è un poeta non facilmente classificabile all’interno delle correnti letterarie che caratterizzano la prima metà del Novecento. Prevalentemente autodidatta, egli è fortemente influenzato dalla poesia italiana delle origini, soprattutto da Francesco Petrarca, con il quale condivide una profonda crisi interiore, e dalla lettura dei classici europei, come i sonetti di William Shakespeare. La maggior parte della sua produzione poetica viene riunita proprio nel Canzoniere, il cui titolo allude, in modo evidente, all’opera petrarchesca; si tratta di una raccolta autobiografica, dove confluiscono tutti i versi della sua vita, attraverso i quali ricostruisce una vicenda individuale ed intima, avente, però, un valore universale.
Tutti gli aspetti della vita giornaliera ed anche quelli personali entrano nella poesia attraverso parole domestiche, le prime venute, "parole senza storia", scelte, quindi,  per la loro concreta oggettività.
Egli ha uno stile umile, ma non banale; usa parole semplici, ma in modo originale; a questa semplicitàespressiva si contrappone una verità, nascosta nel profondo del cuore dell’io-lirico: soltanto la poesia può portare alla luce la condizione dell’animo umano, divisa tra amore e dolore.
La concezione poetica di Saba è caratterizzata da aspetti quali la semplicità dello stile, il tono colloquiale, la prevalenza dei motivi autobiografici, come l’amore per la moglie, uno sguardo rivolto verso la quotidianità della sua città natale, nonché un latente male di vivere, che si esprime sovente in una profonda malinconia.
Altre caratteristiche sono l’autobiografismo (la poesia come strumento di autoindagine), l’autoconoscenza e il realismo, dato che l’opera si riferisce a fatti quotidiani e concreti, penetrati a fondo per coglierne la verità essenziale.
I temi principali sono l’animalità, intesa come espressione del calore della vita, quella che si trova nei personaggi più umili o emarginati, e le varie sfumature della femminilità; la figura della donna rappresenta un altro aspetto caratteristico della sua produzione; alla figura austera e severa della madre ed a quella dolce e affettuosa della balia si salda  spesso il tema dell’infanzia con il conflitto interiore della perdita del padre.
Alla donna è associato un altro dei temi principali del Canzoniere, ovvero la città di Trieste, con le sue passioni assolute, le sue contraddizioni, che rappresenta lo spazio dell’incontro sociale per le persone umili che la abitano, un luogo umile dove cercare il piacere.
Nella sua Trieste, egli è alla ricerca di un punto da cui godere in solitudine il panorama dell’intera città sottostante. Il luogo natio è personificato ora in una donna ora in un ragazzaccio. La sua doppia natura, femminile e materna da una parte, maschile e, al contempo, timida dall’altra, prepara il lettore all’epilogo della lirica.
Saba descrive la città, ma, in realtà, descrive se stesso: personaggio umano e urbano si fondono. “Trieste ha una scontrosa grazia”, ossia una bellezza che non tutti possono cogliere, proprio come Saba.
Il poeta è solitario e desideroso di solitudine, ma, al tempo stesso, ha voglia di vedere la gente; infatti, si siede su un muretto posto in alto in modo da osservare tutte le persone. Ha sete di solitudine; eppure, la sua bottegadi libri antichi è al centro di Trieste.
Altre caratteristiche del Canzoniere sono il rifiuto del verso libero e la prevalenza di forme metriche tradizionali, come sonetto e canzonetta, con la presenza costante della rima, apparentemente banale, che induce i lettori a riflettere sul mistero dell’esistenza. Saba vuole dimostrare che il ricorso ad un lessico comune e quotidiano è estremamente efficace per creare delle risonanze liriche forti e capaci di scavare nella profondità del proprio spirito.
Una caratteristica peculiare del poeta è la curiosità verso la vita, proprio come quella di Ulisse. La curiosità è sinonimo di amore; quindi, i versi della lirica Ulisse testimoniano una passione grande per la vita, che va vissuta fino in fondo e sempre, anche nelle situazioni più difficili. Il suo amore e la sua indole indomita lo spingono verso il mare aperto; non vuole restare nel porto, sinonimo di tranquillità, assenza di curiosità e pericoli, tranquilla comodità. Ha lo stesso spirito inquieto di Ulisse, che in Foscolo viene descritto come eroe perseguitato e romantico, in D’Annunzio come un superuomo, in Dante si identifica con la curiosità intellettuale che lo porterà al naufragio; in Pascoli, invece, è un eroe triste, che torna indietro, fa lo stesso percorso e capisce che tutto ciò che ha visto è stato solo un’illusione. In questa lirica il viaggio è lungo le coste della Dalmazia; dunque, non è semplice poiché vi sono centinaia di isole piccolissime. La costa frastagliata indica la vita; i due elementi (costa frastagliata - vita) sono accomunati dalle notevoli difficoltà, ma Saba non vuole fermarsi in porto, vuole rivolgere lo sguardo verso il mare aperto.
La malinconia e la dolente consapevolezza dell'esistenza, la meditazione sul trascorrere del tempo divengono, così, accorata saggezza della maturità e doloroso amore per la vita. Essa va accettata, anche se troppo spesso è "un sorso amaro". Anche la morte va accettata e non deve far paura perché fa parte della vita stessa.

Giuseppe Ungaretti: un mare di emozioni

 

La parola è impotente, nel senso che non riuscirà mai a dare e a dire il segreto che è in noi: al massimo lo avvicina … La poesia è tale quando porta in sé un segreto; tutta la poesia deve contenere un segreto, anche la più semplice, come aveva capito benissimo Giacomo Leopardi.

 

E’ impossibile rinchiuderlo in una categoria o in una definizione precisa; la gabbia delle “etichette” creata dagli uomini non può appartenergli, non può contenerlo o domarlo; poeta, traduttore, accademico, ma era, in realtà, molto altro, lo è ancora, e ci ha insegnato che la parola è sempre assolutamente impotente per emozioni troppo grandi: è Giuseppe Ungaretti.

La vita, nel 1890, lo condanna presto ad un dolore, il primo dei tanti, inimmaginabile per chi non lo prova: la morte del padre, quando il poeta ha solo due anni; egli prende per mano la sofferenza e cresce insieme a lei, affronta la morte,quando ha appena incontrato la vita.Ma sarà la cultura a renderlo libero, a permettergli di guardare in faccia ciò che lo ha messo alla prova per anni, a partire dalla guerra: proprio in trincea, infatti, scriverà la sua prima raccolta, Il Porto Sepolto.

   E’ proprio da qui che occorre iniziare, per quanto strano possa sembrare: dalla trincea, dalla morte. Nessuno oserebbe pensare che tra compagni “con la bocca digrignata volta al plenilunio”, campi minati e la morte incombente, qualcuno possa essere “tanto attaccato alla vita”; eppure Ungaretti ci riesce: lui la ama, la vita, ne adora ogni sfumatura, anche la più ombrosa e, grazie alla poesia, riesce a vedere la felicità nella luce abbagliante di un faro che, inconsapevole della sua potente funzione, “mette il mare nella nebbia”, illuminandogli il cuore.

 Il suo corpo è provato e quasi distrutto dall’esperienza di guerra, superstite spettatore di una tragedia, ma ciò non gli impedisce di cercare la felicità, di avvicinarsi ad essa il più possibile grazie ad un’illusione, all’immaginazione, strumenti che permettono alla mente di trovare un posto sicuro, un angolo tranquillo e bagnato dalle onde, delle quali è possibile sentire l’instancabile risacca, con gli scogli resilienti e il sale sulla pelle: signori miei, questo è Leopardi!
Incontra artisti come Braque o Picasso, futuristi come Palazzeschi, ma questo non gli impedisce di scagliarsi contro tanti altri, di essere scandalosamente disadattato poiché il suo tempo non comprende  pienamente la sua espressione, anche se geni come lui non vanno capiti e analizzati, ma sentiti nelle lacrime, nei sorrisi, nelle parole di tutti i giorni: egli è maestro di vita e non perde occasione per accompagnare l’uomo di ogni tempo, per accompagnare tutti noi, nei momenti più difficili della vita, per ricordarci che essa non è divisa tra “bene” e “male”, ma nuota tra mille sfumature diverse, arrivando addirittura ad aprirci gli occhi sulla felicità: anche sorridere è difficile!
La guerra gli concede una piccola tregua, una pausa dai combattimentie ciò che resta di quella carcassa e di quelle “quattr’ossa” viene immerso nelle acque del fiume Isonzo, che, come ogni altro fiume della sua vita citato nella poesia “I fiumi”, rappresenta un preciso periodo della sua esistenza, proprio quello della guerra; non deve essere stato semplice parlare di morte con parole piene di vita. Il poeta vi si immerge, come in un rito di purificazione e, più andiamo avanti nel leggere (anzi, nel vedere, perché le parole di Ungaretti vanno viste, sentite e poi lette), più il tempo sembra rallentare e le parole scivolare come l’acqua sul corpo e, quando il poeta si asciuga al sole, sembra di sentire i raggi accarezzare la pelle, come a voler curare le ferite. E poi il Serchio, che scorre nella lucchesia e ricorda la sua famiglia; il Nilo, che lo ha visto “nascere e crescere” e che ricorda gli anni della giovinezza, della spensieratezza, di quella dolce inconsapevolezza che non si prova più nella vita, che scompare all’improvviso e lascia un vuoto pieno di amarezza; poi la Senna, che scorre in Francia e che ricorda gli anni migliori del poeta, quelli in cui si immerge completamente nella consapevolezza e nei sentimenti più torbidamente veri. L’acqua rappresenta la sua vita, che scorre sempre e non si ferma più, che prende velocità, bagna il cuore e le mani, gli occhi, i polmoni: uno come Ungaretti non muore mai, le sue parole lasciano un segno che non può essere cancellato dal tempo e dall’ignoranza, versi che “ci illuminano d’immenso” a distanza di anni.

La sua capacità di sognare anche durante un incubo deriva, ovviamente, dalle diverse sofferenze che la vita gli ha donato perché soffrire è un dono e Ungaretti, come Giacomo, ce lo fa capire. Perde il fratello, poi il figlio Antonietto di soli nove anni; ci permetterà di conoscere anche solo un’eco di questi dolori in un’altra raccolta, “Il dolore”.

   Rischia di perdere una cattedra per il suo antico legame con il regime fascista e va a processo due volte, per poi essere riabilitato definitivamente e riottenere l’incarico universitario: ne esce, insomma, più forte di prima. Muore a Milano, nella notte tra l’1 e il 2 giugno del 1970, accompagnato dalla luna e dalle stelle che lo hanno guidato in trincea, in quel lungo e stretto inferno, e che adesso chiudono dolcemente i suoi occhi.

   La sua ultima raccolta, Vita di un uomo, contiene tutte le poesie in ordine cronologico, ad eccezione dell’ultima, in francese, che rievoca addirittura gli anni  precedenti la guerra; è un cerchio, simbolo dell’inizio della fine, di un viaggio nel futuro, quello dopo la morte e che, perché no, gli permetterà di svelare a se stesso il segreto tanto cercato per una vita intera, di vedere il porto di Pharos con i suoi occhi, cullandosi sulle sue stesse parole; c’è scritto, tradotto, “E’ qui che si prende la nave”: Ungaretti è pronto ad accarezzare il mare calmo e quieto, quel mare che, un tempo burrascoso, lo ha tanto stravolto per una vita intera.

Sarah Lista

Siamo portatori insani di grecità

Questo periodo è per tutti noi molto difficile: mille insicurezze, tanto sconforto e pochi momenti di gioia. Non pensavo di trovare nei classici la mia casa. Rappresentano un mondo per me, un rifugio dall’inferno che viviamo ogni giorno. Non considero affatto il Greco una “lingua morta”, come direbbero in molti; il Greco è vita, è fuoco, è fatica, così come tutti i classici. Durante questi mesi di approccio a questo nuovo mondo ho imparato tanto, conoscendo e apprezzando la vera natura delle cose, quella nascosta e segreta. Considero il Greco una lingua capace di guardare lontano poiché insegna che nella vita non c’è una sola verità, ma tante verità differenti. Pensando al mondo greco, mi vengono in mente due città-stato esistite in uno stesso contesto, ma con modi di vedere la vita completamente differenti: l’Atene democratica e la Sparta militare. Atene era la città della cultura, dell'istruzione, della bellezza; l’unica vera forza in grado di superare gli ostacoli era la sapienza. Sparta era, invece, la città della guerra, della forza fisica, dell'esercito. La visione della vita, da parte degli spartani, era molto differente da quella di Atene; eppure, entrambe le città dimostravano, in modo diverso, il loro immenso amore verso la propria terra.

So che è difficile capire cose del genere, soprattutto se non si penetra in questo mondo e non ci si lascia andare sempre di più, quasi abbandonandovisi. Il Greco mi ha insegnato che, per conquistare la felicità, che non sia solo un attimo di appagamento e serenità, bisogna conoscere il dolore. Il dolore è un privilegio; fa male, ma è fondamentale. D’altronde, se la felicità fosse eterna, non ci sarebbe motivo di desiderarla con fatica e sacrificio. Bisogna essere, però, pronti a lasciarsi travolgere da questo mondo, dalla sua fatica e dalle varie rinunce che esso richiede, ma anche dai meravigliosi doni che è in grado di regalare. Mi sono affezionata al Greco anche grazie ad un grande libro, La lingua geniale, della scrittrice Andrea Marcolongo. Non ho avuto il piacere di leggerlo per intero, ma frattanto ho potuto leggere e ascoltare le varie interviste fatte alla scrittrice, che con convinzione parla della sua opera. Nel libro ella dice: “Con il greco ognuno di noi legge se stesso” Lasciatemi dire che oggi la verità è sempre più cruda e dolorosa, ragion per cui cerchiamo di evitarla. Dentro di noi, però, si nasconde sempre quell’aria tormentosa che crea un magone che sembra infinito. Molti cercano di trovare delle spiegazioni consolatorie che sostituiscano la verità, ma la delusione è ancora più grande, quando la magia finisce e torniamo ad ascoltarci senza filtri. La felicità è una strada faticosa, ma, grazie al Greco, ho capito una legge fondamentale della vita: non potrei mai raggiungere la felicità, se non sapessi che si impara soffrendo, proprio come dice Eschilo: “πάθει μάθος”. Il Greco è bello, è speciale, è raro. Le grandi cose si nascondono sempre nei piccoli particolari. Non avrei mai potuto cogliere a fondo il senso della parola compassione, se non avessi studiato il duale. Il Greco, infatti, adotta un terzo numero: oltre al singolare e al plurale, possiede il duale, molto più raro perché molto più complesso. Esso indica tutto ciò che in natura rappresenta una duplice entità, tutto ciò che è amore. Nel libro c’è scritto: “Il numero duale non esprimeva una mera somma matematica, uno più uno uguale due. Per il banale conto della vita esisteva il numero plurale, proprio come ora. Il duale esprimeva invece un’entità duplice, uno più uno formato da due cose o persone legate tra loro da intima connessione. Il duale è il numero del patto, dell’accordo, dell’intesa. È il numero della coppia, per natura, o del farsi coppia, per scelta. Il duale è allo stesso tempo il numero dell’alleanza e del l’esclusione. Due non è solo la coppia. Due è anche il contrario di uno: è il contrario della solitudine”.  Tutto ciò rappresenta un grande insegnamento di vita. Il Greco mi ha insegnato quanto sia importante ricercare sempre il πάθος che è in ognuno di noi, ovvero la sofferenza, l’emozione, l’empatia! In un momento così difficile ho capito che la felicità e il dolore degli altri ci riguardano e che la compassione è una grande strada verso il successo e il benessere interiore. Affidatevi alla GRECITA’, permettetele di entrare in voi, di stupirvi, di emozionarvi e persino di deludervi, a volte. I classici permettono di conoscere il mondo, di riconoscere se stessi. Serve davvero a qualcosa leggere o studiare i classici? Beh, la risposta è sicuramente sì!
Ci soffermiamo troppo sul concetto di “utilità” e di “inutilità”, perdendo di vista forse la ragione più importante che ci spinge a leggere un classico, che è questa: è semplicemente bello e avvincente!
Possono questi testi, a distanza di secoli e secoli, trasmetterci ancora qualcosa? La mia risposta è, ancora una volta, sì I classici fanno crescere, maturare, ci danno la possibilità di osservare il mondo e tutto ciò che accade nelle nostre vite attraverso occhi diversi, da una prospettiva differente. Si resta sorpresi nel constatare la loro straordinaria attualità; sembra che abbiano sempre una risposta per qualsiasi domanda, ma anche un nuovo quesito da porci. A distanza di anni e secoli, non smettono mai di meravigliarci, avendo continuamente qualcosa di nuovo da rivelare o da farci scoprire. Infatti, come afferma Italo Calvino nel suo saggio Perché leggere i classici, “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. Leggere un classico è bello in quanto le risposte che cerchiamo in esso spesso non sono immediatamente riconoscibili perché esse si trovano tra le righe. Dobbiamo, quindi, essere noi capaci di individuarle! I classici sono indimenticabili; una volta letti o studiati, diventano parte di noi stessi. Aprono le porte della mente, ma soprattutto del cuore, dove si ritaglieranno un posto, anche se piccolo, in cui sosteranno per sempre, fino all’ultimo attimo della nostra vita. Rimarranno quel porto sicuro in cui torneremo, quando siamo stanchi della superficialità e pochezza, che, purtroppo, caratterizzano la nostra epoca. Sono quei testi (anche se mi sembra estremamente limitato definirli in questo modo perché racchiudono qualcosa di molto più grande e profondo) con i quali si sente usare l’espressione “sto rileggendo…” perché sentiamo il desiderio di ricorrere spesso ad essi, verso cui proviamo sempre un forte sentimento di nostalgia, pur non essendone completamente consapevoli.
I classici costituiscono una ricchezza, un viaggio tempestato di paure, difficoltà, ostacoli da affrontare e superare, ma anche di forza, coraggio, determinazione, gioie, amori e sorrisi: sono la metafora della vita, con le sue molteplici sfaccettature.
Leggendo o studiando un classico, non si sta perdendo tempo; anzi, al contrario, lo si sta risparmiando.
In questa fase della nostra vita così turbolenta che è l’adolescenza, dalla quale poi scaturirà il nostro futuro, i classici ci aiuteranno a scoprire la nostra vera identità, a seguire il cuore, le passioni, con coraggio e determinazione.
Un classico insegna l’arte di vivere.
L’attualità dei classici è dimostrata anche da questo quadro di Alexandre Charles Guillemot, pittore francese dell’Ottocento, che, nella sua opera Marte e Venere sorpresi da Vulcano (sotto riportata e custodita all’Indianapolis Museum of Art), ha dato un’interpretazione emozionale dei soggetti sorpresi da Vulcano. Tutto nella tela contribuisce ad enfatizzare l’imbarazzo del momento: lo sdegno di Vulcano, che alza un lembo della rete metallica per poter guardare meglio i due protagonisti del tradimento; gli dei sullo sfondo, che, senza aprirsi a comportamenti infantili e teatrali, ammirano la scena patetica; la vergogna di Venere, che arrossisce e tenta di nascondersi come può sotto gli sguardi indagatori degli dei, coprendosi il volto coi capelli; l’imbarazzo di Marte, il dio della guerra, potente e invincibile, che ad un tratto si rende conto di essere stato vinto proprio dall’amore. Questo quadro ci riporta ad una tematica, purtroppo, fin troppo diffusa: il “revenge porn”, reato consistente nella pubblicazione e diffusione di immagini private sulla rete, senza il consenso del soggetto, affinché tutti possano vederle. In questo dipinto, Vulcano è colui che commette il reato poiché invita tutte le divinità ad assistere al tradimento della moglie. La rete in metallo, costruita da Vulcano stesso, rappresenta un elemento molto significativo: è la trappola in cui cadi, se sei vittima di questo gravissimo reato: le condivisioni del materiale pubblicato sono difficili da fermare e la rete è un mondo fin troppo grande perché non sai mai chi c’è dall’altra parte: ognuno indossa una maschera. Il nostro è il tempo della dichiarazione, quasi urlata, dei sentimenti. Il privato è diventato pubblico, l’intimità è abolita a vantaggio della necessità di “mostrare”, di consegnare ad una dimensione pubblica quello che, un tempo, era custodito con pudore all’interno della sfera domestica, familiare, di coppia. Non ci si incanta più negli occhi della persona amata e ormai quel “ti amo” non ha più lo stesso valore di un tempo. Ecco, i classici servono anche a questo: a proteggere le parole sacre della vita.


(Laura Falzarano, Chiara Marotta, Martina Cosenza, Raffaella Teti, IA, a.s. 2020-2021)

 

   Immaginiamo: il nostro gobbo di Recanati è a Napoli, tra quella dolce confusione, o meglio, quella dolce “ammuina”, a sorseggiare una granita e a divorare un cartoccio di confetti cannellini di Sulmona, quando improvvisamente lo schermo del suo telefono, regalatogli da Ranieri e accettato con riluttanza, si illumina: Pietro Giordani gli ha appena inoltrato una foto in alta definizione del “pianeta rosso”, scattata dalla sonda “Perseverance” e il nostro Giacomo, per registrare le vibrazioni del suo pensiero, costantemente in movimento, si affida allo Zibaldone.

 

Napoli, 18 febbraio 2021

 

   Stamane il sole era tiepido, un sottile alito di vento si faceva strada tra le foglie, ma era impossibile sentire lo “stormir tra queste piante” tant’era la confusione, o meglio, l’ammuina; sorseggiavo la mia granita che accompagnavo ai miei amati confetti cannellini di Sulmona (ah, se mi vedeste, mentre mangio tali prelibatezze! Altro che minestrina, ma soprattutto, altro che pessimista!), quando ho visto i cristalli liquidi di quell’ordigno infernale illuminarsi (non so ancora come Ranieri mi abbia convinto ad accettare in regalo un tale strumento); campeggiava una scritta: “Una notifica da Pietro Giordani”.

Mi sono affrettato a leggere, credendo che Giordani volesse incontrarmi per discorrere in merito all’ultimo idillio inviatogli (rigorosamente tramite lettera e rigorosamente scritta a mano), ma, nel vedere l’effettivo contenuto del messaggio, ti confesso, sono rimasto un po’ deluso: c’era una foto in “alta definizione” del pianeta rosso; che il caro Giordani volesse stimolare i miei pensieri come la “siepe”? Questo non so dirlo, ma so bene che quella foto non mi ha lasciato indifferente, anzi, a dirla tutta, mi ha turbato così tanto da non riuscire a terminare la mia granita; così ho abbandonato quella limonea gelata ai raggi del tiepido sole e mi sono recato sulla costa per sentire le onde infrangersi sugli scogli, per percepire il calore di quel sole tanto odiato prima e tanto amato poi; quegli elementi conciliavano i miei pensieri, facendomi riflettere in merito alla foto inviatami, ma soprattutto in merito all’insaziabile brama di progresso dell’uomo: non ho nulla contro il progresso (come, invece, molti erroneamente hanno la presunzione di credere), ritengo, addirittura, che sia vantaggioso per l’uomo, ma, pensando a questo, ogni volta nella mia mente si fa largo un pensiero: perché l’uomo, per acquisire qualcosa di nuovo, deve perdere ciò che ha già? E pensare questo non equivale ad essere ancorati al passato; non è essere retrogradi; non è essere vecchi; non è essere pessimisti.

   Ah, sapessi quante volte mi hanno attribuito tale aggettivo con un tono saccente, quasi beffardo; sapessi quante volte ho tentato di lasciar riecheggiare quella parola nell’aria affinché non arrivasse al mio cuore come una lama tagliente e mi ferisse, ma non ci riesco, non ci sono mai riuscito.

Sono tutto: turpe, gobbo, brutto, malinconico, pensieroso, pesante, ma non sono pessimista; vorrei gridarlo al mondo intero così come gridavo “io sono felice ed amo la vita!” dalla finestra della casa sul Lungarno a Pisa: ho cercato ovunque l’amore, mi sono fatto bastare anche il semplice pensiero di quel sentimento tanto celebrato; ho ricercato la vita in ogni mio gesto perché io, Leopardi Giacomo, la bramo dal mio primo respiro.

Ho amato ed amo la vita, sebbene questa mi abbia tradito: mi ha consegnato ad un corpo tremendo affinché non fossi capace di “carpere diem” (mi riferisco al suo significato più profondo e non allo sterile “cogliere l’attimo”), ma, armato di resilienza e coraggio, non ho smesso di cercare la sua essenza perché “la vita è una cosa tremendamente seria e in quanto tale va vissuta”.

   Mi rifiuto di essere definito pessimista dai materialisti ottocenteschi e, soprattutto, da certi “professori” che mi rovinano. Ho scoperto l’immensità del mare, ho imparato ad amare il sole, ho anche accettato il mio destino di uomo  e sono rimasto attaccato alla vita per assaporarla fino all’ultimo istante: dimmi, sono pessimista? Perché tutti hanno la presunzione di credere che lo sia? Forse perché non comprendono il vero significato delle mie poesie? O perché ho un’idea del progresso non conforme a quella che ha la massa? Di questo non posso essere che contento.

   Il mio concetto di progresso, infatti, è ben diverso da quello degli altri: credo che spesso questo sia portatore di disincanto. Penso alla luna: non voglio più confidarle i miei pensieri; non ho più voglia di andare su un colle per ammirarla e chiamarla “O graziosa luna”, “O mia diletta luna” perché l’uomo l’ha “profanata”, mi ha gettato in faccia la verità e mi ha detto: “Ecco, questa è la luna: un ammasso di rocce; non può essere “graziosa”, non può essere “diletta”; mio povero Giacomo, sei solo un bambino che crede che tutto sia speciale!” E pensare che “quell’ammasso di rocce” ha ispirato poeti, musicisti, artisti perché lontana, perché affascinante, perché avvolta dal mistero: tutto ciò che non conosciamo è avvolto da una nuvola di magia e da un velo di mistero proprio perché sconosciuto, ma l’uomo non si ferma, insegue il progresso, vuole raggiungere l’ignoto, vuole togliere l’incanto a tutti i costi e così le stelle diventano un insieme di gas e polveri, il mare una monotona distesa di acqua salata.

   Penso ai Greci: non sapevano che l’alternanza delle stagioni fosse dovuta all’inclinazione dell’asse terrestre e, dunque, lasciarono libera l’immaginazione e inventarono il mito di Demetra e Persefone; non sapevano che l’eco fosse un fenomeno dovuto alla riflessione delle onde sonore e, dunque, inventarono il mito di Eco e Narciso.

   Mi chiedo se tutta questa razionalità a lungo andare non faccia male: è vero, l’uomo ha bisogno di progresso, ma non quello che porta al disincanto (di questo passo, non sarò il solo “pessimista” …): sebbene la conoscenza e l’acquisizione di nozioni nuove non possano far altro che recare beneficio all’uomo, tutti abbiamo bisogno di quella siepe, di quell’ἐσχατιά, di quel confine nel quale il razionale e il finito si perdono e cedono il passo alla fantasia dell’infinito.

 

La mente di Giacomo, le mani di Annalisa

“Cara matre”…

Caro Eduardo,

 

    sono una studentessa di quattordici anni. Ti scrivo dal 2022. Ho letto della tua vita, l’ho vista raccontata in un film per la tv, ho studiato le tue commedie, il tuo teatro e la tua poetica. Quando, però, ho visto alcune delle tue opere a teatro e in televisione, mi è apparso chiaro il racconto della vita che hai voluto donarci con la tua arte. All’inizio mi ha impressionato vedere catapultate nella nostra epoca ipertecnologica e di benessere scene di vita familiare caratterizzate da vera miseria, rappresentazioni di case con una stanza, dove erano concentrati letto, cucina e tavolo da pranzo, dove tutti i membri della famiglia vivevano forzatamente e miseramente. Mi è sembrato davvero un altro mondo e la scena scarna, semplice, che raffigura mura scalcinate, suppellettili rozze, pochi mobili semplici, senza radio e senza tv, mi ha dato un’idea forte della difficoltà del vivere in quegli anni antichi, anni anche di guerra. 

   Mi è sembrato un viaggio a ritroso nel tempo; ho avuto l’impressione di essere trasportata negli anni Trenta del secolo scorso, quando in Natale in Casa Cupiello ti svegliavi infreddolito in quella stanza da letto spoglia, dove stavi preparando il tuo amato presepe e aspettavi che tua moglie ti portasse il caffè: scena di vita familiare impossibile da immaginare oggi, ma di un realismo impressionante. Giustamente ti hanno considerato uno dei primi neorealisti, con il tuo teatro che non trasfigurava la realtà, ma la rappresentava per la prima volta impietosamente. Con la tua ironia la rendevi, però, accettabile.

   Appena il palcoscenico comincia a prendere vita con i tuoi personaggi carichi di umanità, a volte davvero amara, e le parole cominciano ad essere le protagoniste della scena, le tue storie non hanno nulla di antico. Credo che tu sia stato un grande rivoluzionario e che la tua visione della società dei tuoi tempi, in molti aspetti, rispecchi anche quella della mia generazione. Prendo come esempio Ditegli sempre di sì: Michele definisce la società innaturale, finta e forzata. Posso dire che, nonostante gli anni passati e il progresso che c’è stato, sono aggettivi che descrivono anche la mia di società: siamo tutti pazzi che si credono normali, che non si mettono in discussione perché credono di essere già realizzati.

   Guardando Natale in casa Cupiello, inizialmente mi sono immedesimata in Tommasino che risponde “no” al padre, quando gli chiede se gli piaccia il presepe: quel ragazzo impertinente sembra il tipico adolescente che vuole contraddire il genitore, che brama il cambiamento e non comprende le tradizioni; eppure, dietro questa scena si nascondono l’inquietudine e la sofferenza del vivere di un giovane che vede distante il padre, incapace di risolvere i suoi problemi, chiuso nell’illusione di un mondo perfetto, nel quale i ruoli sono predefiniti come in un presepe dove tutto è sempre uguale a se stesso.

   Caro Eduardo, mi hai fatto comprendere con il tuo sguardo ironico sulla famiglia Cupiello che le passioni, i sentimenti, le aspettative dell’uomo scompaginano le convenzioni. Mi ha sorpreso l’attualità dei tuoi messaggi, racchiusi in scene di vita familiare che appaiono relegate in un lontano passato, ma che poi acquistano una dimensione senza tempo.

  In Napoli Milionaria sei stato impietoso nel raccontare l’immiserimento dell’animo umano, quando si insegue il guadagno fine a se stesso. L’avidità di donna Amalia distrugge il valore della solidarietà, mortifica ogni sentimento, azzera l’importanza della famiglia, calpesta ogni regola di onestà. Mi ha colpito, però, la resistenza, nelle macerie della guerra, dell’uomo buono, del protagonista Gennaro, che, anche se è vittima della miseria dei sentimenti o delle difficoltà del sopravvivere, non perde il senso dei valori umani, non cede alla avidità. Inizialmente non comprendevo questo padre di famiglia che subisce passivamente i comportamenti squallidi e truffaldini della moglie, dei figli, degli amici di famiglia. Immaginavo la fuga da quel mondo, da quella realtà squallida, come l’unica salvezza; ma, nel prosieguo della commedia, è proprio Gennaro, che resta con la sua carica di umanità al fianco dei figli, a rappresentare l’ancora di salvezza, liberando il figlio da una vita di strada e di furti, allontanando con la sua presenza l’amico truffatore della moglie e rappresentando una possibilità di cambiamento.

   Caro Eduardo ci hai spiegato come pochi che la solidarietà è vicinanza. Arrivederci e alla prossima commedia.

 

Angelica

 

 

 Squarci su tela: quando la mia vita divenne un'opera d'arte

 È passato un anno dalla prima vaccinazione anti covid in Italia e ne sono passati ormai due dall’inizio dell’epidemia.

  Quel maledettissimo giorno di marzo che ha salvato, trasformato e complicato la vita alle persone, tramortendo i sogni a partire dai più piccoli (che chissà come la prenderanno fra una decina di anni), finendo con i più grandi, già delusi abbastanza dalla vita, che ancora oggi continuano a ridurre la pandemia a morti, contagi e vaccinati.

    Ricordo ancora le parole del mio maestro di danza, prima che la scuola chiudesse a causa del covid: “tanto è una prospettiva lontana da noi, ci metteranno un po’ di paura e poi tornerà tutto come prima”. Il covid non aveva ancora un nome e, per l’appunto, ci sembrava qualcosa di troppo lontano per essere coinvolti; eppure, ancora non abbiamo capito come dalla Cina la situazione sia degenerata a livello globale in così poco tempo. 

  Ricordo il 31 gennaio perché lo Spallanzani di Roma, l’istituto nazionale addetto alle malattie infettive, mise in quarantena l’intero ospedale per due turisti cinesi risultati positivi all’anomala influenza che si diffondeva rapidamente a Wuhan. Solo un mese prima, il 31 dicembre, la Cina aveva dichiarato i primi casi di un’influenza atipica. Lì già regnava il caos. Era come vedere il trailer di un film che nei giorni successivi sarebbe stato proiettato in tutte le sale; solo che in questo contesto, le sale cinematografiche erano i telegiornali e le vite reali.

   Io ero in seconda media e il mio più grande problema era come sopravvivere all’esame di terza mentre gioivo già per la gita che mi sarebbe spettata solo l’anno dopo. 

   Mi ricordo la sanificazione che venne fatta subito dopo le vacanze di Natale a scuola, il meme di Barbara D’Urso, che insegnava in diretta televisiva come lavare le mani, e i dispenser di sapone per le mani improvvisamente materializzati sui lavabi dei bagni scolastici: una cosa simile non l’avevo mai vista. 

   Ai tempi, la professoressa di religione mi sembrava una folle, già munita di guanti, disinfettante e mascherina. 

   Successivamente, il 10 gennaio 2020, la polmonite atipica segnalata dalla Cina il 31 dicembre venne ribattezzata con il nome di Sars Cov-19.

   Tutto scorre tranquillo: si può percepire un po’ di tensione a causa dei media, ma nulla di rilevante. 

   Nel frattempo a Wuhan il 23 gennaio inizia il lockdown: gli ospedali si riempiono e in due giorni viene costruito da zero un intero ospedale. 

   Iniziano a diffondersi le prime teorie cospirazionali: occultamento di cadaveri e scienziati che spariscono nel nulla sono al centro dei servizi del telegiornale, accompagnati più avanti da continui piani cartesiani in salita.

   In Cina a gennaio già regnava la paura, la stessa che selvaggiamente durante il mese di febbraio avrebbe divorato prima gli italiani e, successivamente, il mondo.

   Esperimento da laboratorio o un pipistrello mal conservato al mercato del pesce?

   Una semplice influenza o un mostro che entra dentro di te e divora i tuoi polmoni, facendoti annegare, da solo, in un posto dove mai avresti immaginato di poter sentire mancanza di ossigeno.

   Il 21 febbraio viene riconosciuto il paziente “zero” del focolaio che si era diffuso in Lombardia, a Codogno. Da lì a tre giorni si scatena l’inferno con 325 casi confermati nella regione Lombardia, regione che più ha patito durante la prima ondata; la sanità pubblica cade in ginocchio a causa dei troppi malati, dei troppi morti, dei pochi medici e del poco spazio negli ospedali.

 Anche in un momento come questo si sentono assurdità. 

Ospedali con i corridoi pieni di malati, infermieri e medici imballati come fossero contenitori di qualcosa di fragile e forse un po’ è così; la loro anima si rompe giorno dopo giorno nel guardare persone morire senza poter far nulla. Medici spaventati di portare l’antagonista della storia nella propria casa, medici in pensione anticipata perché terrorizzati dall’affrontare un’epidemia; altri richiamati dalla pensione per salvare la vita nei reparti; specializzandi spinti in pasto alle terapie intensive: questa è stata la prima ondata, su quattro.

A marzo si cerca di porre rimedio: Conte scrive la bozza di un dpcm dove comunica la quarantena che sarebbe stata imposta al popolo italiano da domenica 8 marzo.

Così iniziano a chiudersi le prime frontiere, le nazioni, le regioni, i comuni, le fazioni e la fiducia delle persone crolla anche nei confronti dei propri coinquilini.

Un giornalista, accidentalmente, rivela l’imminente lockdown e sabato 7 marzo tutti i ragazzi fuori sede, soprattutto provenienti dalla Lombardia, prendono gli ultimi treni e ritornano tra le braccia dei loro cari, incoscienti e spaventati, a casa, permettendo così all’influenza atipica di espandersi dalla regione Lombardia a tutta Italia.

8 marzo, lockdown nazionale.

Avrebbero dovuto essere solo due settimane.

11 marzo l’OMS dichiara lo stato pandemico: dopo cento anni sembra solo una bizzarra coincidenza.

Panico per le scuole: la nostra classe, grazie al professore di italiano che prese iniziativa e trovò subito rimedio, ci arrangiammo con delle lezioni online su Skype, così occupando le prime due settimane di reclusione.

Iniziavano, però, ad intrufolarsi nella nostra vita, in punta di piedi, nuove terminologie, che ad oggi è impossibile ignorare. Sono entrate nella nostra vita per gioco, ma hanno finito per fare a pugni con la spensieratezza di una festività in famiglia. 

Ogni due settimane la fine della quarantena veniva rinviata alle due settimane successive. Insieme al linguaggio si modificavano anche le nostre abitudini e così, prima di uscire, insieme alle chiavi abbiamo iniziato a preoccuparci di guanti, mascherina e disinfettante.

L’anno scorso si credeva il covid potesse durare fino a 72 ore sulle superfici; eravamo divisi in chi sosteneva l’utilità e l’inutilità dei guanti e in chi ignorantemente rimpiangeva il governo di Mussolini. 

Eravamo nella classifica top 3 tra le nazioni con più contagi e morti, insieme alla Cina e alla Corea del Sud.

 C’era la Russia che, nonostante l’emergenza, ha mantenuto i suoi numeri per sé, non facendo sapere la realtà dei dati; poi Israele che non sapeva dove seppellire i cadaveri.

 Il mondo dell’economia e del commercio si ferma, l’arte e il pensiero si ritirano e come in tempi di guerra regna il silenzio, anche se per poco…

Iniziano le canzoni alle tre del pomeriggio: tutti riuniti sui balconi per combattere un sentimento comune, la paura.

 L’unico attimo di fuga dalle mura domestiche era andare a fare la spesa, soprattutto per chi, vivendo in città, non aveva la possibilità di accedere neanche a uno spazio verde.

 Video caricati sui social da ogni parte del mondo, mentre si canta l’inno italiano a supporto del buio periodo che stavamo vivendo. La Torre Eiffel con il nostro tricolore in onda al telegiornale. 

I social erano una frazione della realtà dove la speranza regnava perché prima o poi sarebbe andato tutto bene. 

Nel frattempo i supermercati si svuotavano, le mamme facevano scorta di farina, lievito, carta igienica a discapito del prossimo. Il virus, anche se solo teoricamente, ci contagiava tutti, ogni volta in cui, anziché prendere quanto realmente ci serviva, preferivamo raddoppiare la dose: il covid ha vinto, ha dimostrato che agli uomini basta poco per ritornare animali. 

Egoisti davanti alla paura, non ci rendevamo conto del fatto che il covid non fa sconti. Ricchi e poveri. Vecchi e giovani. Italiani e non.

A giugno i contagi calano, le morti con loro e il lockdown ufficialmente non c’è più. Nessuno ci crede, ma ancora una volta le vite altrui non contano nulla e superbamente si corre verso la libertà perché il covid alletta e uccide solo le persone immunodepresse o almeno così si pensa… 

Si sperava, apparentemente è stato così, che il covid risentisse delle alte temperature; infatti, fu un'estate tranquilla.  Mantenere il metro di distanza, indossare le mascherine in ambienti chiusi o in affollamenti.

 Ricordo ancora le prime mascherine spedite per posta da parte del governatore della regione, Vincenzo De Luca, brutte e scomode, ma ai tempi si utilizzava veramente di tutto, data la scarsa reperibilità. 

C’è la mascherina chirurgica che va cambiata ogni sei ore, che protegge gli altri da te; poi c’è la mascherina ffp2, quella a becco e tipicamente bianca, che va cambiata anch’essa dopo sei ore, ma che protegge sia te sia gli altri e che ancora oggi affermo sia la morte. Se, infatti, con la chirurgica l’unico effetto collaterale è un’acne da mascherina, con l’ffp2 si aggiunge anche il non riuscire a respirare. Inizialmente erano talmente tanto rare che si trovavano anche a sessanta euro da rivenditori privati. Un po’ come l’amuchina, l’oggetto più ricercato del 2020. Giravano su internet ricette, come quelle dei panettoni, per preparare un disinfettante fai da te. 

È già settembre e del rientro a scuola non se ne parla proprio: c’è la seconda ondata e la didattica a distanza è diventata normalità. Le due settimane di vacanza iniziavano a farsi sentire; stavamo passando troppo tempo in compagnia solo di noi stessi, dentro quattro mura e con diversi seguiti.

 Stavo iniziando a realizzare di aver saltato delle fasi; fasi che i miei coetanei stavano vivendo in quarantena; sviluppavo la consapevolezza di essere atipica e ad oggi, come conseguenza, c’è un’ansia triplicata per ogni nuova situazione, contrapposta, però, ad una diversa concentrazione sulle piccole cose. 

In conflitto con me stessa ogni giorno, iniziavo a conoscermi così bene da odiarmi. Odiavo il mio peso e le mie idee. È da lì che ho iniziato a capire che scrivere sarebbe stato l’unico mezzo con il quale avrei potuto fare pace con me stessa. 

Chi sono io? La domanda che mi tormenta e a cui mai saprò dare risposta. Sognavo di diventare un supereroe, ma sono diventata solo un ammasso di parole esitanti.

Ogni giorno è sempre più opprimente. Mi sembra di essere ancora sulla linea bianca, quella della partenza. Voglio riprendermi gli attimi, ritornare a quando l’aria pungente durante le sagre di paese era un fastidio; rivoglio la gente in strada e quelle feste dove inizi a ridere talmente tanto che tenerti la pancia non basterà a far cessare il dolore. 

Questa stanza è tutto quello che ho, ma è così estranea, nonostante mi permetta di vagare in quei ricordi dove le piccole cose diventano speciali.

Ci sono giorni in cui sei triste senza motivo e dove il corpo diventa pesante perché tutti, tranne te, sono occupati in qualcosa di produttivo, facendoti credere di essere in ritardo; quindi, corri, corri, sperando che, quando le lancette dell’orologio si sovrapporranno, tutto cambi.

Ma il tempo si ferma.

L’oscurità diventa eterna in quella stanza troppo piccola per contenere le tue emozioni.

Una concentrazione maggiore sulle piccole cose, una diversa prospettiva; sono gli appigli che ti permettono di sperare in una mattina di primavera.

Mi ricordo il professore di italiano incitarci a scrivere un diario per documentare questa bizzarra situazione: non l’ho mai fatto. Ho sempre preferito racchiudere in frammenti di testi la mia emotività. 

Nel mio paesino a settembre ci sono state le elezioni e di conseguenza, ad ottobre, c’è stato il picco dei contagi.

 A fine ottobre ci viene data la possibilità di rientrare a scuola in presenza, anche se con tutta una serie di regole. Mascherine, distanziamento, banchi singoli, finestre aperte e termosifoni spenti. 

Non sono state queste restrizioni a rendere il rientro a scuola cupo, ma l’atmosfera che spegneva l’euforia di stare finalmente tutti insieme. Faceva freddo a causa della nostra incapacità di viverci dopo mesi e mesi di paure e distanza.

Si iniziava a parlare di vaccinazioni; in poco meno di nove mesi iniziavamo a vedere uno spiraglio di luce, un po’ più concreto rispetto a ciò che ci era stato detto a giugno. 

A dicembre l’ennesimo picco di contagi.

Vincenzo De Luca per la Campania emana un decreto di zona rossa. 

Perché nel frattempo era possibile dividere l’Italia in colori, in base ai numeri dei reparti intensivi negli ospedali. Siamo stati, per la maggior parte dell’emergenza covid, una regione rossa, lo stato più grave di allerta, perché il nostro governatore di regione, anziché pensare alle vite in bilico attaccate ad un respiratore, pensava a fare il comico su instagram.

Natale e Capodanno con un limite di sei persone in casa.

 

Tre…due…uno… Felice anno nuovo!

Ci illudevamo del fatto che quel tappo di spumante e il suo schioccare potessero cancellare tutto il dolore passato, lasciando al loro posto solo bei ricordi.

 E, invece, no.

Inizio a soffrire di attacchi di panico e di una sorta di ansia sociale che puntualmente, quando in una stanza sono presenti più di dieci persone, mi tocca una spalla per farmi sentire che almeno lei c’è.

Ricominciamo la scuola in presenza, per le prime settimane di gennaio, poi di nuovo tutti a casa a ripetere fino a maggio le solite azioni. Ti svegli per aprire il computer, fai videolezione, pranzi e inizi a studiare, finché non fa sera e sei costretta a ricominciare tutto da capo.

Iniziano a vaccinarsi le prime persone e a diminuire i posti occupati in terapia intensiva e con loro si allentano anche le restrizioni.

La gita di terza media salta a causa del prolungato stato di emergenza sanitaria e all’esame di terza media vengono eliminate le prove scritte: notizie per cui un anno prima avrei gioito.

 Arriva settembre e tocca anche a me la prima dose di vaccino: peccato sia meteopatica e agofobica.

Ricordo le luci spente all’interno del centro vaccinale e la pioggia persistente che c’era fuori.

Ero parte della cupa struttura che mi ospitava, seduta dentro una sala d’aspetto improvvisata in un palazzetto dello sport, che solo due anni prima aveva visto vincere almeno un centinaio di partite, ma che purtroppo, ora, vedeva me perdere contro un mondo grigio.

C’era una signora davanti a me che gridava al complotto, celato da una fiala medica e un ago. 

Io, invece, ero incuriosita dai miei i respiri: mi sentivo vuota, come ciò che avevo intorno.

Sembrava tutto così sterile.

Dietro alla signora c’era un cartello, “L’Italia rinasce come un fiore con la vaccinazione”, usato a mo 'di separé, con il resto del palazzetto. Così creava anche un corridoio, solo visivo, tra gli spalti e il separé che impediva la vista. In questo corridoio improvvisato camminavano ossessivamente i ragazzi della protezione civile, avanti e indietro, assaporando già con la mente il letto di casa o almeno così intuivo dalla cadenza regolare con cui controllavano l’orologio al polso. 

In fondo a questo corridoio c’è una porta finestra, dalla quale sono entrata: è spalancata e ciò mi permette di poter intravedere la macchina blu che mi ha portato fino a qui; la pioggia in quel momento c’era per ricordarmi che qualche metro più avanti la vita continuava.

Su una colonna era possibile leggere un vecchio avviso riguardante qualche assurdo comportamento da non adottare durante l’uso regolare della struttura. Nel campo visivo della colonna, a sinistra, c’è un murale romano sui toni del blu. Data la recentissima vittoria agli europei, la mia mente ha associato subito quel muro al motto VENI, VIDI, VICI.

 Siamo eccellenti nel costruire contenitori di memorie.

In sottofondo c’è il leggero brusio di un ventilatore, abbandonato lì e puntato verso un cumulo di fogli, dimenticati da tutti come una delle peggiori sconfitte.

Tutto da lì sembrava migliorare; eppure, oggi 28 dicembre siamo nel pieno della quarta ondata: in Italia l’ottanta percento della popolazione è vaccinato, eppure non basta.

Dopo anni il covid non è più qualcosa che fa tanta paura; siamo assuefatti dalla paura di vivere la malattia in solitudine. Buffo che degli animali sociali unidirezionali stiano imparando a tenere a bada questo loro istinto.

 È diventato un lontano ricordo ballare in sala in compagnia di altre persone, senza preoccupazioni; lo è diventato anche l’ansia euforica che precede un’esibizione, quella paranoia che in maniera positiva influisce sul tuo corpo, permettendoti di esibirti durante i decimi più alti di un’influenza.

Non è più possibile fare percorsi in montagna con persone che non vedi da una vita perché hai paura ti possa contagiare anche tua sorella fuorisede, figurati un amico. Addio ai concerti, all’euforia dei pianti e alle urla che si fondono perfettamente al beat della canzone: corpi sudati di persone che in pieno agosto hanno deciso di sentirsi un po’ più vive. 

Salutiamo anche le amicizie improvvisate durante la fila degli eventi per mezzo di sorrisi cordiali che ora vengono sostituiti da un leggero schiudersi degli occhi.

Mi manca il dopo concerto, quando la band lascia il palco e le persone si allontanano per reintegrare le calorie bruciate. Ma tu sei lì, seduto su un ciglio di un marciapiede con le ginocchia a contatto dell’erba. Stai realizzando che effettivamente è possibile sentirsi così vivi e non è solo una leggenda scritta dagli autori nei loro libri.

Questo è ciò per cui prima ci alzavamo dal letto e di cui ora più che mai sentiamo la mancanza. Eppure, ci sono ancora quei momenti inaspettati che ti riempiono il cuore.

Era agosto e mi trovavo a Roma da mia sorella; eravamo in giardino a mangiare una pizza, finché i vicini di casa, anche loro ragazzi fuori sede, decisero di sedersi a cavalcioni sul muro che divideva i nostri giardini, per fare amicizia. Iniziativa inaspettata, ma che ha generato forti risate. Mentre tutto il condominio era segregato in casa noi eravamo lì, sotto la flebile pioggia, a sentire il peso del nulla sulle spalle.

Nonostante questi rari momenti di spensieratezza, lo stress si accumula e i momenti per svagarsi diminuiscono; diventa pesante alzarsi dal letto, aprire il computer e indossare la ormai logorata maschera, quella della totale indifferenza rispetto a ciò che sta accadendo, così da illudere chi ti sta accanto che la tua ansia non sia peggiorata e il dolore non sia l’unica via di scampo da una gabbia di nebbia, pronta ad offuscare la tua realtà fino ad eliminare ogni possibilità di chiedere aiuto.

È vero: è possibile scegliere come scappare, ma diventa troppo complicato nel momento in cui la tua realtà si fa carico delle frustrazioni del mondo.

Nessuno verrà ad aiutarti, non sei fondamentale.

Tutto è gentilmente servito sotto forma di obbligo, una forzatura che con il tempo sta innescando la reazione opposta a quella desiderata.

Nulla tornerà più come prima; puntiamo al voler sembrare impassibili e a tornare alla normalità, senza prima ammettere le nostre rotture. Vogliamo essere apparentemente perfetti, ma, per smontare le nostre convinzioni, basta fare un giro in strada. 

Durante i giorni festivi, la paura e l’abitudine prevalgono e così le strade si svuotano e restano solo le decorazioni natalizie, che con cadenza regolare si illuminano per portare gioia.

 Le menti, invece, sono troppo trafficate dalla miriade di problemi economici e sociali che il covid ha causato.

Il primo passo verso la guarigione è la consapevolezza.

Riusciremo a guarire il nostro cuore solo guardandoci dentro ed affrontando con sguardo critico il presente.

È un finale aperto verso la vita: non possiamo controllare il covid. Possiamo scegliere come reagire. Non ci resta che aspettare e stare in agguato per non perdere il rumore delle cose che iniziano.

Martina Cioffi, IB





 

 

 

Leggiamoci: Calliope

"Leggiamoci" è un concorso per giovani amanti della scrittura. Un concorso che dona la possibilità di pubblicare i propri racconti in modo da scoprire, coltivare e tenere viva la propria passione e il proprio talento. Dedica attenzione e premura alla divulgazione della fantasia e delle emozioni degli adolescenti attraverso l'arte della scrittura. In questo modo, tutti noi ragazzi e ragazze che usufruiamo della scrittura come mezzo per evadere, per dare sfogo ai nostri dolori e alle nostre gioie e per vivere quando ci sentiamo soffocare dai troppi pensieri avremo l'opportunità di esternare le parole che custodiamo dentro di noi.

 

  Calliope

 Vedevo la mamma abbracciata al papà sul letto di Amelia. Avevo sentito i suoi singhiozzi, alcuni più forti di altri, e mi ero affacciata dalla porta semichiusa della cameretta mia e della mia sorellina. Riuscivo a percepire la schiena della mamma alzarsi e abbassarsi in modo scomposto, come se ad accarezzarla fosse la mia mano e non quella di mio padre. Potevo vedere la faccia distrutta di mio padre. Stava trattenendo le lacrime e lo vedevo: lo vedevo che si sforzava di essere forte per mia madre. Delle lacrime calde iniziarono a rigarmi il viso, silenziosamente, senza che me ne accorgessi. 

   Avevo capito tutto, eppure nessuno mi aveva detto nulla. L'avevo capito dagli occhi afflitti di mio padre e dal pianto disperato di mia madre. La mia sorellina, Amelia, era volata via, come il palloncino che, ogni volta in cui usciva dall'ospedale, le regalavo e che, puntualmente, si lasciava scappare via dalla presa fragile della sua piccola mano intorno al nastrino. Mamma, allora, si affrettava a comprargliene un altro, ma Amelia mi aveva confessato che lo faceva apposta. Le piaceva vedere quel palloncino giallo diventare un puntino sempre più piccolo, man mano che saliva  verso il cielo. Diceva che, poi, la sera, si affacciava dalla finestra e lo riconosceva, che lo rivedeva in una delle stelle che decoravano il cielo. 

   Aveva creato, così, un mosaico di diamanti su un letto di velluto nero. Avevo capito che era volata via proprio come quel palloncino; che non sarebbe tornata più, ma che avrei potuto guardarla, parlarle e ammirarla ogni sera perché io l'avrei riconosciuta: anche in una tempesta di stelle lei sarebbe stata quella più brillante. 

   La mamma, quando le chiedevo perché accompagnassimo sempre Amelia all'ospedale, mi diceva che un mostro molto cattivo navigava nel suo sangue e che i medici, che aveva soprannominato "cavalieri", avrebbero aiutato Amelia a sconfiggerlo. Lei era forte e buona e, visto che in ogni fiaba le belle e candide principesse vincono contro le streghe cattive, lei avrebbe vinto. Quel giorno, però, non c'era un lieto fine, era una vera e propria sconfitta: la principessa era caduta in un sonno profondo e neanche il più forte dei principi avrebbe potuto svegliarla. 

   Avevo otto anni, quando Amelia, di soli cinque, era andata via. I miei genitori avevano provato a tenere duro, a sembrare forti, come se tutto potesse andare bene e la fiaba continuare proprio come da copione. Ma i pianti soffocati tradivano le parole dette per tranquillizzarmi. Il conforto di una bugia non poteva reggere e mi sembrava di sprofondare nella crudeltà di un'orribile verità. Io, però, avevo sempre cercato e preferito la verità. Non credevo a ciò che mi dicevano: io lo sapevo, l'avevo capito. Quando i miei genitori si convinsero finalmente a dirmi la verità, cercando le parole più giuste, non versai neanche una lacrima e non proferii parola. Mi rifugiai sul letto di Ameila, cercando il suo odore, che, però, sembrava svanito. Avevo smesso di parlare. La mia voce era volata via proprio come la risata allegra di mia sorella. 

   Non volevo parlare più, se non con lei. Non volevo raccontare i sogni e gli incubi che facevo la notte, se non c'erano i suoi occhi verdi, attenti e sorpresi ad osservarmi, mentre parlavo; non volevo più inventare storie sui nostri pupazzi preferiti, se non c'era lei ad aggiungere altri dettagli; non volevo più cantare la sigla dei nostri cartoni animati preferiti, se non c'era anche la sua voce ad accompagnarmi. Non rispondevo alle domande della mamma e non ridevo alle battute di papà. Ero sprofondata in un lungo silenzio, che niente e nessuno poteva e riusciva ad interrompere. Mi sentivo svuotata di qualcosa, come se una parte che mi componeva e mi teneva in piedi mi fosse stata strappata via. Sentivo un'assenza, un vuoto che non potevo riempire, se non con tutte le parole che reprimevo e ingoiavo. Trascorrevo le giornate circondate da suoni e parole che, oramai, non mi appartenevano più. 

   Era passato un anno dalla morte della mia sorellina. Era passato un anno, da quando avevo smesso di parlare. I miei nonni per il compleanno mi avevano regalato una lavagnetta con un pennarello, così, dato che avevo imparato a scrivere e a leggere, avrei potuto rispondere alle domande che mi venivano poste. Quel giorno, il 26 settembre 2017, i miei genitori avevano deciso di traslocare. Avevano affittato un nuovo appartamento più piccolo di quello in cui vivevamo e con un grande terrazzo. Forse volevano andare il più lontano possibile da quella casa, che non faceva altro che ricordare Amelia. Erano passati così tanti giorni da quando era volata via che cominciai ad assuefarmi alla sua assenza. Ero nella stanza che avevamo adibito a "stanza dei giochi". Stavo scegliendo attentamente i giocattoli da portare con me e quelli da lasciare nella casa vecchia. Trovai una grande scatola rosa. C'era di tutto: peluche, bambolotti con tutti i loro accessori, travestimenti per Carnevale e poi, in fondo, quasi nascosta, un audio cassetta grigia. Mi incuriosii e la portai a mia madre. Non sapeva neanche lei di chi fosse e come facessimo ad averla. Decidemmo, allora, di ascoltarla. Inaspettatamente, sentimmo la voce angelica e infantile di Amelia. Mi girai verso la mamma e vidi che era sorpresa tanto quanto me. Sembrava quasi spaventata, finché non scoppiò in un pianto silenzioso che non riuscì a soffocare. Nel frattempo si levavano nell'aria risate allegre di tanti bambini e ne rimasi incantata. E, poi, ciò che più mi colpì furono delle parole: "Lascio tutti i miei giochi a mia sorella Virginia perché lei è una bella e brava bambina e le voglio tanto bene: io ora devo volare".

    Riconobbi subito la sua voce, che da tempo mi sembrava solo un'illusione. Il tono era felice, ma stanco. Rideva faticosamente insieme agli altri bambini, ma rideva con allegria. Quell'audiocassetta, quelle parole, quelle risate mi sorpresero. Volevo risentirle ininterrottamente, ancora e ancora. Iniziai a risponderle con semplici monosillabi; immaginavo che potesse sentirmi, che aveva voglia di parlare con me. Ridevo con lei e iniziavo a prendere i suoi giocattoli per portarli via con me. In quel momento, qualcosa dentro di me si sbloccò. Avevo capito che potevo parlare e ridere anche io come gli altri bambini. Ascoltavo la sua vocina leggera e, mentre ero nella nostra camera quasi spoglia di ogni mobile, cercavo di riprodurre con la mia voce le sue parole. Quando avevo capito di non essere sola, che lei c'era ancora lì con me, mi sentii di nuovo completa, come se qualcosa fosse rinato dentro di me. Mi registravo mentre emettevo piccoli suoni e piano piano riprendevo a parlare. Iniziai a canticchiare, mi sembrava più semplice e più divertente e, così, mi salvai. 

   Mi sono salvata da un lungo silenzio cantando e sono rinata grazie alla voce calliopea della mia sorellina. Erano notti che continuavo così: imparavo a cantare da sola in una piccola camera con una penna come microfono. Quando iniziai di nuovo ad esprimermi a parole, dimenticando la lavagnetta, gli occhi dei miei genitori e delle maestre mi guardavano rincuorati e sorpresi. Decisi, allora, di voler studiare canto, di fare di quella salvezza un futuro. 

   Lo avrei fatto per ricordare Amelia e per amare me stessa.  

                                                                                                                                                                                                Angelica Taddeo, IIA

   

  Francesco Petrarca 

"Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo ma meno; ecco ho mentito di nuovo: lo amo ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, [...] nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza"

                                                                                                                                   (Familiares IV, 1, L' ascesa al Monte Ventoso)

   

  Petrarca è un uomo che aspira al Tutto, ma senza arrivare a possederlo. E' un uomo pubblico, un intellettuale versatile con una grande passione per la cultura classica. Infatti, se oggi abbiamo l'epistolario di Cicerone, è anche grazie a lui, che è un grande viaggiatore e gira l'Europa alla ricerca di antichi manoscritti.

   E' stato fortunato, per la sua epoca, a nascere in una famiglia facoltosa. Suo padre è notaio e questo lo induce a dedicare tanti anni della sua vita allo studio delle leggi. Tuttavia, butta all'aria quegli studi, appena ne ha l'opportunità. Infatti, con la morte del padre, segue la sua vera passione: la letteratura. Poi, prende gli ordini minori, non per vocazione - tant'è vero che concepisce due figli - ma solo per garantire a se stesso una serenità economica e importanti incarichi diplomatici. Rappresenta, infine, un esempio nella letteratura, assurgendo a maestro nel genere della poesia: la perfezione delle sue liriche diventa un modello e, con gli autori che negli anni a seguire si ispirano a lui, nasce la corrente letteraria del Petrarchismo.

L'amore è il suo punto dolente. E' tormentato da un amore irraggiungibile, che non è possibile vivere. L'Amore per Petrarca è vano, è un errore, è una distrazione dalla virtù e dalla devozione a Dio, unico grande amore concesso all'uomo del Medioevo.

   Petrarca potrebbe ben essere paragonato ad  un qualsiasi ragazzo di oggi: soffre, ama, poi si pente; però, alla fine, continua ad amare. Il suo cuore, la sua mente, il suo corpo sono tutti per Laura, quella bellissima Laura per cui trascura perfino Dio. Quanto se ne pente! Riesce addirittura a diventare contraddittorio, a tratti lamentoso, incoerente.

   A differenza di Dante, ci descrive una donna in carne ed ossa; una donna bella, femminile, non angelica. Per lui, la donna non è sinonimo di salvezza né di vicinanza a Dio, ma proprio tutto il contrario: è una passione terrena e, quindi, sbagliata perché lo porta a sprecare tutte le sue energie, tutte le sue forze che dovrebbero, invece, essere impiegate per qualcosa di più alto e più degno.  

   Petrarca, dunque, ci mostra un sentimento passionale, quell'amore che ti fa perdere la testa, che ti spinge a dimenticare qualsiasi dovere e che ti porta a perdere qualsiasi controllo. Con  lui, riusciamo a vedere l'Amore in tutta la sua verità e umanità: è un sentimento contraddittorio, tormentoso, che porta dubbi, sofferenze, il senso di colpa che accompagna il desiderio. Lui soffre, soffre tanto. Non riesce a conciliare ciò che è terreno, tangibile, concreto, con ciò che, invece, è trascendente.

   Petrarca è l'autore della raccolta di poesie che è, poi, diventata un modello insuperabile delle poesie d'amore, ovvero il Canzoniere. Le sue liriche sono eleganti, ma vuole che siano perfette. Parla di sé, di quello che vive, del tormento interiore di cui si sente vittima. Il protagonista è lui, diviso tra redenzione e desiderio. Il Canzoniere è un "sommesso colloquio del poeta con la sua anima", eppure non si lascia mai andare del tutto. I suoi sentimenti non sono urlati, ma freddamente e precisamente descritti. È, infatti, un perfezionista: ricerca le parole più adatte, revisiona e corregge le sue poesie almeno nove volte, rendendole, così, meno spontanee.

   La peccaminosità dell'amore mondano è qualcosa che noi, oggi, non abbiamo più, anzi l'amore si manifesta proprio nella sua forma più terrena, carnale. Egli, invece, la percepisce incessantemente. I suoi scritti e la sua blasfemia, però, fanno capire chiaramente che neanche il rimorso e la paura del peccato possono sostituire un sentimento come l'amore.

   In Padre del Ciel, dopo i perduti giorni, ammette che la sua passione è una colpa, chiede aiuto a Dio, ma, alla fine, finisce per mettere sullo stesso piano il sentimento per Cristo e quello per Laura.

   Questa inquietudine lo spinge a ricercare la solitudine. Vuole essere abbandonato da quel sentimento troppo forte, devastante, dimenticando, però, che dall'amore non si fugge e che anche nei "più deserti campi" continuerà a dominare e a conversare con il suo cuore. È una persona che fugge dagli altri e si rifugia dove il resto degli uomini non può vederlo; ha paura che non lo capiscano, che possano giudicarlo male. Trasmette la solitudine e il disagio che, spesso, sono tipici della nostra generazione.

   Vive chiaramente un vero e proprio conflitto interiore, più precisamente una guerra tra mente e cuore. La mente vorrebbe abbandonare Laura, allontanarsi da lei e dalle cose profane, come fa il protagonista di Movesi il vecchierel canuto et biancho, così da rivolgere tutte le sue attenzioni al Signore, ma non ci riesce: continua a cercare Laura nei volti degli altri. Il suo cuore, ogni volta, sembra prevalere così tanto da indurlo ad immaginare che Laura, con la sua femminilità e la sua sensualità, seduca Dio e lo convinca a perdonarlo.

   Per Petrarca, non è solo l'amore ad essere un tormento, ma anche il tempo e la sua caducità. Esso vola e non ritorna più. Le cose piacevoli, belle, i momenti che ci rendono felici, diconseguenza, sono fugaci: "quanto piace al mondo è breve sogno". 

   Vede la sua vita che ineluttabile, ogni giorno, si avvicina al suo termine. Incita a vivere, a godersi ogni istante che la vita ci offre perché lui, invece, quel dono che si chiama vita non l'ha mai sfruttato, si è crogiolato nel suo dolore e ha perso troppo tempo a vaneggiare.

   Riconosce la vanità e l'illusorietà di quei sentimenti che l'hanno consumato, ma, nonostante tutto, non riesce a lasciarli andare e porterà con lui questo desiderio d'amore fino alla fine. 

                                                                                                             Angelica Taddeo, II A